Notule

 

 

(A cura di LORENZO L. BORGIA & ROBERTO COLONNA)

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XXII – 29 marzo 2025.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: BREVI INFORMAZIONI]

 

Epilessia resistente ai farmaci: significato dei neurofilamenti leggeri. L’epilessia resistente ai farmaci è la forma più grave di disturbo dell’attività elettrica cerebrale ed è spesso associata a declino cognitivo. Una migliore conoscenza della neuropatologia associata alle manifestazioni cliniche potrebbe migliorarne la prognosi. Sarah Akel e colleghi hanno misurato nel sangue di 444 pazienti epilettici svedesi le seguenti molecole: neurofilamento leggero, proteina acida della glia fibrillare, tau totale, proteina B legante il calcio S100 ed enolasi neuronica. Il neurofilamento leggero è emerso quale predittore dello status di epilessia resistente ai farmaci. Ulteriori studi dovrebbero stabilire se il neurofilamento leggero riflette un danno cerebrale specifico della forma resistente e se potrà essere usato per il monitoraggio della malattia. [Cfr. Brain Communications – AOP doi: 10.1093/braincomms/fcaf108, 2025].

 

Ricompensa e addiction: nuove acquisizioni sulla modulazione nel nucleo accumbens. Stefano Zucca e colleghi hanno indagato i cambiamenti molecolari e sinaptici che si verificano nel nucleo accumbens per effetto di esposizione a oppioidi, per approfondire la conoscenza dei processi alla base di ricompensa e addiction. I ricercatori hanno riconosciuto un ruolo chiave alla molecola di adesione cellulare ELFN1, che agisce integrando i segnali glutammatergici nella regolazione neuromodulatoria del sistema oppioide. In particolare, ELFN1 è selettivamente espressa negli interneuroni colinergici in cui agisce mediante il reclutamento trans-sinaptico di mGlu4 per modulare la forza della trasmissione glutammatergica. L’eliminazione selettiva di Elfn1 nei neuroni colinergici abolisce la facilitazione a breve termine dei segnali glutammatergici, riducendo l’assunzione di oppioidi e la ricompensa in topi che si auto-somministrano morfina. Questi risultati rappresentano una nuova conoscenza circa i meccanismi di neuro-adattamento indotto da oppioidi della funzione degli interneuroni colinergici, e sul contributo di queste cellule nervose di connessione alla codifica dei segnali di ricompensa. [Cfr. PNAS USA – AOP doi: 10.1073/pnas.2409325122, 2025].

 

Sclerosi Multipla: l’effetto benefico dell’attività motoria si verifica solo oltre una soglia? L’interessamento delle funzioni cognitive nella sclerosi multipla è presente in un numero considerevole di casi e risulta spesso disabilitante e resistente al trattamento. Poiché l’esercizio motorio regolare e protratto è associato a un basso grado di problemi cognitivi negli affetti da questa malattia, è stato condotto uno studio che ha valutato l’effetto dell’attività fisica misurata come “passi compiuti al giorno”, per stabilire se vi è una soglia di passi oltre la quale si ha assenza di disturbi cognitivi. I risultati dello studio di Brenda Jeng, Gary Cutter e Robert Motl non hanno definito l’esistenza di una soglia per ottenere un beneficio, ma provano che ogni livello di attività fisica è in grado di determinare benefici alla fisiologia dei processi cognitivi; naturalmente, il maggior numero di passi al giorno garantisce i migliori effetti. [Cfr. J. Int. Neuropsychological Society – AOP doi: 10.1017/S1355617725000049, March 24, 2025].

 

Schizofrenia e disturbi correlati: i biomarker acustici possono essere realmente utili? Kangwook Jang e colleghi hanno valutato i biomarker acustici nei disturbi dello spettro della schizofrenia in associazione ai sintomi e alla fisiologia cognitiva. I risultati dello studio suggeriscono che l’analisi acustica, combinata con un approccio ML (impiegati 5 modelli), può essere adottato con successo per classificare i disturbi dello spettro della schizofrenia; in particolare è risultato che elementi legati alla tonalità musicale, al volume dello stimolo acustico e al suo timbro sono significativamente associati con l’attenzione nei pazienti affetti da schizofrenia e disturbi correlati. [Cfr. Progress in Neuropsychopharmacology & Biological Psychiatry - AOP doi: 10.1016/j.pnpbp.2025.111339, 2025].

 

L’automedicazione animale guidata da apprendimenti della specie (istinto) suscita domande. In questi anni abbiamo sempre documentato nelle notule le scoperte relative all’uso di rimedi a scopo protettivo o curativo da parte di animali, e in particolare di primati. Ora è disponibile una raccolta esaustiva di tutti gli esempi di questo comportamento registrati in natura. Un articolo di John M. Drake dal titolo The animal apothecaries su Science presenta un volume scritto da un biologo dell’evoluzione che raccoglie tutte le prove e le documentazioni dei comportamenti di “cura” scoperti nella scala zoologica, dalle formiche alle grandi scimmie antropomorfe: Jaap de Roode, Doctors by Nature: How Ants, Apes, and Other Animals Heal Themselves. Princeton University Press, 2025 (264 pp.).

Jaap de Roode in 14 capitoli illustra come uno spettro di specie, che va dalle farfalle agli scimpanzé, dalle api agli elefanti, usi prodotti vegetali ed altre sostanze per cercare di guarire danni e malattie dell’organismo. Roode comincia da Michael Huffman, il primo ad aver documentato negli anni Novanta una forma di auto-medicazione in scimpanzé allo stato naturale. L’autore invita a una profonda riflessione sul significato del “medicare”, su quali scenari cognitivo-comportamentali può aver definito la possibilità di “curarsi” per gli animali, e sul confronto fra il discernimento nell’automedicazione di animali quali i primati e il discernimento degli esseri umani che fanno ricorso all’automedicazione. [Cfr Science 387 (6740): 1260, 20 March, 2025].

 

Scoperto nel colibrì un fenomeno sensazionale spiegato come mimetismo adattativo. Sono a tutti noti i meravigliosi colori del colibrì, l’uccello della taglia più piccola che si conosca, ma non tutti hanno presente le differenze tra la livrea del maschio e quella della femmina. Jay Falk e altri ricercatori della University of Washington, in collaborazione con colleghi della Carnegie Mellon University, hanno individuato femmine col piumaggio colorato come quello dei maschi, e ne hanno scoperto la ragione: in questo modo evitano l’aggressione da parte di altri uccelli e possono competere efficacemente per accedere alle risorse di nettare. È semplice e intuitiva l’identificazione della pressione esercitata dalla selezione naturale all’origine di questo mimetismo, ma è eccezionale la scoperta dell’assunzione di un carattere sessuale secondario per effetto di selezione, in quanto gli elementi caratteristici di ciascun sesso sono geneticamente legati in modo esclusivo all’identità sessuale, cioè si tratta, come dice Jay Falk, di uno “stable endgame”. [Cfr. Animal Behaviour – AOP doi: 10.1016/j.anbehav.2025.123104, 2025].

 

Il Ciclone Alfred ha scagliato uccelli marini nell’entroterra dove non riescono a sopravvivere. Il Ciclone Alfred, che ha colpito nei giorni scorsi le coste australiane del Qeensland, ha determinato la comparsa nei cieli di Brisbane e di altre località dell’interno di specie aviarie mai viste in quei luoghi e segnalate inizialmente con entusiasmo dai birdwatchers. Ma presto si è notato che questi uccelli, pur sopravvissuti alla furia del vento, morivano perché in città non sapevano come e dove trovare cibo, acqua e riparo. Come in altri casi, è intervenuta l’organizzazione in difesa di questi uccelli fondata da due celebri gemelle, Paula e Bridgette Powers, ritratte fin da bambine con i pellicani: Twinnies Pelican and Seabird Rescue. Hanno salvato, fra gli altri uccelli trascinati dalla furia dei venti sulla terraferma dalle isole, esemplari di black-winged petrel (Pterodroma nigripennis) una procellaria dal corpo bianco con lunghe ali elegantemente striate di nero, che si accoppia sull’isola nota come Lord Howe Island. [Fonte: The Guardian Science News, March 2025].

 

Il Saggio sulle malattie della mente di Kant rivela una visione conosciuta solo da pochi. La nostra società scientifica fin dalle sue prime pubblicazioni ha contribuito a far conoscere il Saggio sulle malattie della mente di Immanuel Kant (v. rubrica Drops), riscoperto da Luciano Dottarelli ma ignorato da quegli psichiatri e psicologi che, per decenni, hanno citato Kant a sproposito parlando di disturbi mentali. Nell’incontro di questa settimana di un gruppo di studi di BM&L-Italia dedicato all’analisi dei rapporti delle idee di Kant con la concezione della malattia mentale delle epoche precedenti e successive, si è discusso dell’allucinazione delirante (da Kant definita semplicemente “allucinazione”), ossia dello sviluppo di un delirio interpretativo da parte dello psicotico in seguito all’esperienza di una “percezione senza oggetto” (allucinazione).

Ecco le parole di Kant maggiormente analizzate e discusse: “Per quanto riguarda il primo di questi mali, cioè l’allucinazione [Verrükung], io spiego le sue manifestazioni come segue. L’anima di ogni uomo, anche nella condizione più sana, è sempre affaccendata a dipingere ogni sorta di immagini di cose che non sono presenti o anche, nella rappresentazione di cose presenti, a completare una qualche somiglianza imperfetta attraverso questo o quel tratto chimerico che la capacità inventiva inserisce nella sensazione. Non vi sono ragioni di credere che nello stato di veglia il nostro spirito segua a questo riguardo leggi diverse da quelle nel sonno… Non c’è quindi da meravigliarsi che i sogni, per tutta la loro durata, vengano presi per vere esperienze di cose reali”[1]. Dunque, Kant suppone nell’interpretazione delirante delle allucinazioni un processo simile a quello che ha luogo nel sonno.

Interessante notare che, contrariamente a quanto ritenuto da molti interpreti del pensiero kantiano sull’argomento delle forme di insania psichica, il filosofo di Königsberg riconduce al cervello, a una base cerebrale, l’alterazione all’origine del fenomeno: “Si supponga ora che certe chimere, quale che ne sia la causa, abbiano per così dire leso questo o quell’organo del cervello, in modo tale che l’impressione su di esso sia stata tanto profonda e al tempo stesso precisa quanto quella che solo una sensazione può dare; in tal caso questo fantasma dovrà essere considerato come un’esperienza reale anche allo stato di veglia…”[2].  [BM&L-Italia, marzo 2025].

 

Rapporti tra linguaggio, filosofia e neuroscienze: la necessità di tornare a Wittgenstein. In un incontro della nostra società scientifica che si è tenuto in questa settimana, i soci del gruppo strutturale dedicato al rapporto tra filosofia e neuroscienze hanno dimostrato la necessità di riprendere, studiare e impiegare le tesi esposte da Ludwig Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus. Il Trattato, adottando i principi del simbolismo e della relazione tra le parole e le cose in ogni linguaggio, dimostra come la filosofia tradizionale e molte soluzioni tradizionali nascano dall’ignoranza dei principi del simbolismo e dal cattivo uso del linguaggio. I temi, come spiega nell’introduzione il celebre matematico e amico dell’autore Bertrand Russell, sono nell’ordine: la struttura logica delle proposizioni, la natura dell’inferenza logica, la gnoseologia[3], i principi della fisica, l’etica e, infine, il Mistico (das Mystische). Ludwig Wittgenstein divide in tre ordini di problemi il rapporto tra linguaggio e pensiero: 1. Cosa avviene nella mente: campo della psicologia (e noi oggi aggiungiamo: delle neuroscienze); 2. Qual è la relazione tra enunciati e significato: campo dell’epistemologia; 3. Come usare gli enunciati affinché risultino veri: questo problema appartiene ai singoli saperi e scienze che trattano dell’oggetto degli enunciati.

Un’idea pratica su come l’impatto del Trattato sulle questioni discusse e dibattute in filosofia, psicologia e neuroscienze porti chiarezza ed elimini equivoci persistenti nell’uso pratico di concetti relativi alla nostra esperienza quotidiana, la forniscono questi esempi di definizioni: Il mondo è tutto ciò che accade. Il mondo è l’insieme dei fatti, non delle cose. I fatti nello spazio logico sono il mondo. Lo stato di cose è un nesso di oggetti (entità, cose). Gli oggetti contengono la possibilità di tutte le situazioni. L’oggetto è semplice. Gli oggetti formano la sostanza del mondo. Perciò non possono essere composti.

Bastano solo questi primi enunciati, per rendersi conto di quante ambiguità si possono eliminare accettando di impiegare in questo modo rigoroso concetti basilari per ogni riflessione sulla realtà. [BM&L-Italia, marzo 2025].

 

Da cosa mangiava il Collegio dei Priori nel 1344 al secondo libro di cucina del Trecento. Proseguiamo nei nostri appunti di storia della cucina per sensibilizzare circa la necessità di ritornare alla preparazione casalinga dei cibi, evitando i prodotti dell’industria alimentare (v. in Note e Notizie 15-02-25 Notule: I nuovi studi su microbioma intestinale e asse cervello-intestino evidenziano l’importanza dei costumi alimentari; Note e Notizie 22-02-25 Notule: Appunti e curiosità su abitudini alimentari e cucina presso i Romani antichi; Note e Notizie 01-03-25 Notule: Da Roma a Firenze: appunti di cucina medievale italiana prima del primo libro di cucina; Note e Notizie 08-03-25 Notule: Dai costumi alimentari medievali alla nascita del lessico della cucina italiana; Note e Notizie 15-03-25 Le straordinarie ricette del Modo di cucinare et fare buone vivande rivelano i gusti dell’epoca; Note e Notizie 22-03-25 I destinatari dei ricettari del Trecento e la breve storia di una brigata di giovani gaudenti).

Nel Trecento è attestato l’affermarsi di una differenza radicale tra il regime alimentare dei poveri e quello dei benestanti, dei ricchi e dei potenti, con alcune caratteristiche che rimarranno per secoli e che, secondo alcuni autori, si affermarono anche a causa delle numerose carestie che si ebbero in quel periodo.

Le carestie del XIV secolo, per l’impatto che ebbero sui popoli della penisola italiana, sono state oggetto di numerosi studi, prevalentemente condotti seguendo criteri e paradigmi economici e politici al fine di spiegare il perché di una realtà mai documentata storicamente come in quel periodo, ma oggi, alle pur rilevanti ragioni proposte nei saggi classici, si aggiungono interessanti spunti emersi dall’impiego di nuovi paradigmi, non ultimo quello della storia della meteorologia. È documentato in tutta Europa un cambiamento climatico con un abbassamento generale della temperatura e un aumento massiccio delle piogge con effetti catastrofici sui raccolti, di cui si legge spesso che marcivano. Senza contare che il freddo e le intemperie riducevano la resistenza umana nel lavoro dei campi. Ma sicuramente ebbe un peso notevole il drastico cambiamento di proporzione tra domanda e offerta: Dal 1100 al 1300 la popolazione europea era quasi triplicata, senza alcun progresso nelle tecniche agricole e senza un aumento proporzionale degli agricoltori. E il contributo di un altro fattore, da sempre rilevato dagli storici ma considerato da molti paradossale, ha trovato di recente una chiara spiegazione razionale: le guerre precedevano sistematicamente le carestie. Era considerato paradossale in base a questo ragionamento: i contadini non potevano essere arruolati negli eserciti, dunque il lavoro agricolo era sempre assicurato e, considerati i caduti in guerra, si aveva una riduzione della popolazione da sfamare. Ergo: offerta identica con riduzione della domanda dovrebbe voler dire abbondanza.

Il ragionamento in termini economici non faceva una piega, ma mancava una nozione importante relativa alla guerra; i primi ad accorgersene furono gli studiosi delle strategie adottate nella Guerra dei Cent’Anni: uno di quei modi, mutuato dai barbari, si affermò nel Trecento. Gli eserciti occupavano i campi espropriando, cacciando e talvolta uccidendo i contadini, vi costruivano grandi accampamenti e poi, quando muovevano da lì, incendiavano e devastavano tutto con ogni mezzo, per sottrarre ai nemici mezzi di sussistenza. Ecco come la guerra distruggeva l’agricoltura. Nel giro di qualche decennio zone abitate con colture e allevamenti si trasformavano in aree boschive o forestali. Questa ragione si affianca a quella classicamente addotta per spiegare la “fuga dalle zone rurali” che colpì particolarmente Italia e Spagna: quando un terreno diventava improduttivo i contadini dovevano continuare a pagare un canone al proprietario senza poter coltivare la terra e ottenere raccolto.

Un altro aspetto significativo è il rapporto delle carestie con le epidemie – particolarmente quelle di peste – frequenti e gravi in quegli anni. Non accadeva solo che l’infezione mortale decimasse la manodopera dei campi, ma si stabiliva un vero e proprio circolo vizioso: la carestia impoveriva l’alimentazione di apporto proteico, vitaminico e di oligoelementi, riducendo negli organismi la biosintesi degli anticorpi e di tutte le molecole implicate nei processi di difesa immunitaria, causando una vulnerabilità massima alle infezioni, che si sviluppavano anche con bassa carica batterica e risultavano più spesso, se non invariabilmente, mortali.

Dopo questa doverosa parentesi sulle carestie trecentesche, ritorniamo alla differenza alimentare fra i ceti poco abbienti e quelli benestanti. Era diverso tutto, a cominciare dal pane.

Il pane di mescolo, segno di ristrettezza economica, è esistito per quasi due millenni, fino alla seconda metà del Novecento. Esisteva già nel Medioevo, non si sa bene da quanto, ma dopo lo sviluppo della grande ricchezza fiorentina rappresentata dal conio del grosso fiorino d’oro, a lungo la moneta più forte d’Europa, fare in casa propria o acquistare pane di mescolo voleva dire non poter comprare alcuna delle numerose varietà di “pane bono”, dal pan bianco al pan nero, venduto dai fornai toscani e in tutte le altre regioni italiane. Il pane di mescolo era fatto con un misto di farine di vecce, segale, fave, miglio e, in piccola parte, frumento.

Anche se queste “farine povere” erano raccattate come scarti, avanzi, rimasugli di preparati adoperati per il foraggio di animali d’allevamento, si vuole che fossero, sia pure a occhio, bilanciate nel realizzare il pan di mescolo. Per cultura popolare si sapeva del rischio di mali cui ci si esponeva nell’uso alimentare di ciascuna di quelle farine surrogate, e allora si riteneva di poter evitare l’effetto nocivo limitando la quantità relativa di ognuna nella mescolanza. In particolare, alla segale si attribuivano gli effetti tossici della claviceps purpurea (segale cornuta) e alla farina di veccia una diarrea irrefrenabile.

In proposito, si tenga conto che le vecce erano molto comuni in Toscana e diedero luogo a una tradizione quaresimale ancora viva in tutta Italia. La veccia è il seme di una pianta erbacea leguminosa appartenente al genere Vicia (Vicia sativa), comprendente molte specie spontanee, che crescono in forma filamentosa: i semi si davano agli animali da cortile, la farina si usava come foraggio per gli animali da stalla; piantine di veccia si facevano crescere al buio durante la quaresima, in modo che in assenza di fotosintesi venissero su come eleganti ciuffi di fili bianchi cascanti dai vasi, da impiegare per adornare i sepolcri allestiti presso le chiese durante la settimana santa. A quest’epoca e a quest’uso risale il detto toscano rivolto a persone pallide, soprattutto se mancanti di abbronzatura in estate: “Tu sei bianco come una veccia!”

Ritornando all’alimentazione delle persone in ristrettezze economiche, la prima cosa da rilevare è l’assenza delle carni, tanto che si diceva: “per i poveri è sempre venerdì”; ma non potevano certo mangiar pesce o molluschi, tranne nel caso si trattasse di poveri pescatori. Poi si deve notare che anche i formaggi e persino le uova erano rarissime per costoro: molti andavano avanti per anni a zuppe di pan di mescolo e verdure di piante selvatiche.

Uno straordinario documento che si può consultare presso l’Archivio di Stato di Firenze, ci aiuta a comprendere l’enorme differenza nell’alimentazione tra privilegiati e indigenti: Il Registro delle Spese per la Mensa del Collegio dei Priori nel 1344. Il Collegio dei Priori era la massima magistratura fiorentina il cui delicato incarico istituzionale era riconosciuto e rispettato dal popolo. Si osserva, per inciso, che tre anni dopo si ebbe in Firenze una grande carestia. Cercando nel registro della mensa troviamo spese per questi primi piatti: ravioli, lasagne, maccheroni, pappardelle e vermicelli; per queste pietanze: vitella, castrone, maiale, capponi, polli, piccioni, anatre, fagiani e tordi; tra i pesci d’acqua dolce vi sono tinche, lasche e lucci, tra quelli di mare, muggini, ossia cefali, lamprede e poi crostacei, molluschi e granchi. Vi erano naturalmente spese per le numerose spezie. Tra i prodotti dell’orto spiccano fave, piselli e tanti legumi.

Non sorprendono le spese per arredi e utensili da cucina e da tavola, fra cui piatti, bicchieri, posate, con una varietà ancora sconosciuta altrove; in proposito, notiamo l’acquisto di forchette, rimaste sconosciute fuori della Toscana fino al Settecento, come si è già detto.

Uno dei motivi per cui i privilegi dei Priori erano accettati è che la carica durava solo due mesi, e così ogni anno cambiavano sei volte i membri del Collegio, e quindi quasi tutti gli iscritti a ciascuna delle Arti potevano aspirare a diventare priori per due mesi.

Prima di passare a un altro straordinario ricettario dopo quello del 1338, osserviamo alcune caratteristiche dei gusti dell’epoca. Francesco Sacchetti nelle sue novelle ci tramanda che i Fiorentini del Trecento andavano in estasi per “l’oca ripiena d’agli”[4], il che ci informa su un gusto tipico di quell’epoca: mangiavano e gustavano il sapore dell’aglio cotto e degli effetti organolettici prodotti grazie ad un’azione chimica di “riduzione” sugli acidi dei grassi delle carni[5]. L’uso dell’aglio non come semplice aroma, ma come parte essenziale della pietanza, è stato conservato per centinaia d’anni in Spagna e si ritiene, anche se non vi sono prove certe al riguardo, che l’origine sia nella gastronomia italiana.

Francesco Sacchetti ci dice che “andavano in estasi” anche per il “ventre di vitella”, per le starne lesse e le sardelle in umido. Fra i dolci gradivano molto le pinocchiate, i morselletti, le zucche confettate, i berlingozzi, il pan pepato, il savore, la sapa e le fanfalucche[6].

Il secondo libro di cucina toscana e italiana fu scritto nella seconda metà del Trecento, è custodito col contrassegno di Codice 158 nella Biblioteca Universitaria Bolognese e convenzionalmente chiamato Anonimo toscano del XIV secolo per cinquecento anni, fino a quando Francesco Zambrini, nel 1863, lo trascrisse e gli diede nome Libro della Cucina del XIV secolo. L’autore si ritiene fosse un cuoco toscano, in particolare fiorentino secondo Paolo Petroni, rimasto anonimo con ogni probabilità perché gli autori dei primi ricettari si ritiene fossero dei raccoglitori di ricette, tramandate prevalentemente per via orale, e non gli ideatori dei piatti.

In questo periodo a Firenze si poteva gustare la porchetta in deliziosi arrosti che sfruttavano lo sciogliersi del grasso ad alta temperatura per il formarsi di quella crosta glicoproteica che, ancora oggi, con le giuste spezie, conferisce quel sapore ritenuto irrinunciabile da molti. Ma per altri due secoli la porchetta, che oggi è un vanto laziale, rimane sconosciuta fuori dalla Toscana[7].

L’Anonimo toscano del XIV secolo riporta ben 183 ricette, ciascuna delle quali è descritta in modo sommario, con specifiche solo per gli elementi essenziali e caratterizzanti. Si sono ritenute, queste esposizioni stringate, un segno del fatto che l’autore si rivolgesse ad esperti di cucina, cui non bisogna dire come si prepara un brodo, come si fa un impasto di farina o il procedimento di base per salse e zuppe, né le quantità degli ingredienti. Fra i primi piatti vi sono ricette di ravioli, tortelli, lasagne, pastelli, molti timballi diversi e pasticci in crosta, che all’epoca si chiamavano “coppi”.

Fra i secondi di carne dominano gli arrosti: di paperi, oche, piccioni, capponi, pavoni e gru. Poi dei piatti che avranno grande successo e diventeranno dei classici, come la spalla di castrone stufata, accanto alla testa di bue marinata e a varie ricette di trippa. Si ritiene che questo ricettario abbia contribuito alla fortuna di un piatto ricercatissimo in periodo invernale: il caldume o gualdaffa, a base di brodo di trippa e di budella bovine. Non pochi hanno visto nella gualdaffa un antenato del lampredotto.

 

[continua]

 

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[1] Immanuel Kant, Saggio sulle malattie della mente, pp. 66-67, Massari Editore, Bolsena (VT) 2001.

[2] Immanuel Kant, Saggio sulle malattie della mente, op. cit. p. 67.

[3] La gnoseologia è la teoria della conoscenza, ossia è quella branca della filosofia che studia la natura della conoscenza.

[4] Francesco Sacchetti, Novelle, cit. in Paolo Petroni, La cucina del Trecento: nasce la vera cucina fiorentina, in Il libro della vera cucina fiorentina, p. 18, Giunti, Firenze 2009.

[5] Tra i tanti composti solforati caratterizzanti l’aglio, il più interessante è l’aminoacido (non proteinogeno) alliina, che abbonda nell’aglio fresco (insieme con ciclo-alliina, iso-alliina e S-metilcisteina) ed è un solfossido derivato della cisteina. L’alliina (alfa-aminoacido appartenente alla serie stereochimica L) per azione enzimatica produce i solfonati: anche il semplice schiacciamento causa la produzione dei solfonati, che danno l’odore dell’aglio fresco.

[6] Cfr.  Paolo Petroni, La cucina del Trecento: nasce la vera cucina fiorentina, in Il libro della vera cucina fiorentina, p. 18, Giunti, Firenze 2009.

[7] Cfr. Paolo Petroni, La cucina del Trecento: nasce la vera cucina fiorentina, in Il libro della vera cucina fiorentina, p. 17, Giunti, Firenze 2009.