Notule
(A cura di LORENZO L. BORGIA & ROBERTO COLONNA)
NOTE
E NOTIZIE - Anno XXII – 29 marzo 2025.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia”
(BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi
rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente
lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di
pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei
soci componenti lo staff dei
recensori della Commissione Scientifica
della Società.
[Tipologia del
testo: BREVI INFORMAZIONI]
Epilessia resistente ai farmaci:
significato dei neurofilamenti leggeri. L’epilessia resistente
ai farmaci è la forma più grave di disturbo dell’attività elettrica cerebrale
ed è spesso associata a declino cognitivo. Una migliore conoscenza della
neuropatologia associata alle manifestazioni cliniche potrebbe migliorarne la
prognosi. Sarah Akel e colleghi hanno misurato nel sangue di 444 pazienti
epilettici svedesi le seguenti molecole: neurofilamento leggero, proteina acida
della glia fibrillare, tau totale, proteina B legante il calcio S100 ed enolasi neuronica. Il neurofilamento leggero è emerso quale
predittore dello status di epilessia resistente ai farmaci. Ulteriori studi
dovrebbero stabilire se il neurofilamento leggero riflette un danno cerebrale
specifico della forma resistente e se potrà essere usato per il monitoraggio
della malattia. [Cfr.
Brain Communications – AOP doi: 10.1093/braincomms/fcaf108,
2025].
Ricompensa e addiction: nuove
acquisizioni sulla modulazione nel nucleo accumbens. Stefano
Zucca e colleghi hanno indagato i cambiamenti molecolari e sinaptici che si
verificano nel nucleo accumbens per effetto di esposizione a oppioidi, per
approfondire la conoscenza dei processi alla base di ricompensa e
addiction. I ricercatori hanno riconosciuto un ruolo chiave alla molecola
di adesione cellulare ELFN1, che agisce integrando i segnali glutammatergici
nella regolazione neuromodulatoria del sistema oppioide. In particolare,
ELFN1 è selettivamente espressa negli interneuroni colinergici in cui agisce
mediante il reclutamento trans-sinaptico di mGlu4 per modulare la forza della
trasmissione glutammatergica. L’eliminazione selettiva di Elfn1 nei
neuroni colinergici abolisce la facilitazione a breve termine dei segnali
glutammatergici, riducendo l’assunzione di oppioidi e la ricompensa in topi che
si auto-somministrano morfina. Questi risultati rappresentano una nuova
conoscenza circa i meccanismi di neuro-adattamento indotto da oppioidi
della funzione degli interneuroni colinergici, e sul contributo di queste
cellule nervose di connessione alla codifica dei segnali di
ricompensa. [Cfr. PNAS USA – AOP doi: 10.1073/pnas.2409325122, 2025].
Sclerosi Multipla: l’effetto benefico dell’attività motoria si verifica solo oltre una soglia? L’interessamento delle funzioni cognitive nella sclerosi multipla è presente in un numero considerevole di casi e risulta spesso disabilitante e resistente al trattamento. Poiché l’esercizio motorio regolare e protratto è associato a un basso grado di problemi cognitivi negli affetti da questa malattia, è stato condotto uno studio che ha valutato l’effetto dell’attività fisica misurata come “passi compiuti al giorno”, per stabilire se vi è una soglia di passi oltre la quale si ha assenza di disturbi cognitivi. I risultati dello studio di Brenda Jeng, Gary Cutter e Robert Motl non hanno definito l’esistenza di una soglia per ottenere un beneficio, ma provano che ogni livello di attività fisica è in grado di determinare benefici alla fisiologia dei processi cognitivi; naturalmente, il maggior numero di passi al giorno garantisce i migliori effetti. [Cfr. J. Int. Neuropsychological Society – AOP doi: 10.1017/S1355617725000049, March 24, 2025].
Schizofrenia e disturbi correlati: i biomarker
acustici possono essere realmente utili? Kangwook
Jang e colleghi hanno valutato i biomarker acustici nei disturbi dello
spettro della schizofrenia in associazione ai sintomi e alla fisiologia
cognitiva. I risultati dello studio suggeriscono che l’analisi acustica,
combinata con un approccio ML (impiegati 5 modelli), può essere adottato con
successo per classificare i disturbi dello spettro della schizofrenia; in
particolare è risultato che elementi legati alla tonalità musicale, al volume
dello stimolo acustico e al suo timbro sono significativamente associati con
l’attenzione nei pazienti affetti da schizofrenia e disturbi correlati. [Cfr. Progress in Neuropsychopharmacology &
Biological Psychiatry - AOP doi: 10.1016/j.pnpbp.2025.111339, 2025].
L’automedicazione animale guidata da
apprendimenti della specie (istinto) suscita domande. In
questi anni abbiamo sempre documentato nelle notule le scoperte relative
all’uso di rimedi a scopo protettivo o curativo da parte di animali, e in
particolare di primati. Ora è disponibile una raccolta esaustiva di tutti gli
esempi di questo comportamento registrati in natura. Un articolo di John M.
Drake dal titolo The animal apothecaries
su Science presenta un volume scritto da un biologo dell’evoluzione che raccoglie
tutte le prove e le documentazioni dei comportamenti di “cura” scoperti nella
scala zoologica, dalle formiche alle grandi scimmie antropomorfe: Jaap de Roode, Doctors by Nature: How Ants, Apes,
and Other Animals Heal Themselves. Princeton University Press, 2025 (264 pp.).
Jaap de Roode
in 14 capitoli illustra come uno spettro di specie, che va dalle farfalle agli
scimpanzé, dalle api agli elefanti, usi prodotti vegetali ed altre sostanze per
cercare di guarire danni e malattie dell’organismo. Roode
comincia da Michael Huffman, il primo ad aver documentato negli anni Novanta
una forma di auto-medicazione in scimpanzé allo stato naturale. L’autore invita
a una profonda riflessione sul significato del “medicare”, su quali scenari
cognitivo-comportamentali può aver definito la possibilità di “curarsi” per gli
animali, e sul confronto fra il discernimento nell’automedicazione di animali
quali i primati e il discernimento degli esseri umani che fanno ricorso
all’automedicazione. [Cfr Science 387 (6740): 1260, 20 March, 2025].
Scoperto nel colibrì un fenomeno
sensazionale spiegato come mimetismo adattativo. Sono
a tutti noti i meravigliosi colori del colibrì, l’uccello della taglia più
piccola che si conosca, ma non tutti hanno presente le differenze tra la livrea
del maschio e quella della femmina. Jay Falk e altri ricercatori della
University of Washington, in collaborazione con colleghi della Carnegie Mellon
University, hanno individuato femmine col piumaggio colorato come quello dei
maschi, e ne hanno scoperto la ragione: in questo modo evitano l’aggressione da
parte di altri uccelli e possono competere efficacemente per accedere alle
risorse di nettare. È semplice e intuitiva l’identificazione della pressione
esercitata dalla selezione naturale all’origine di questo mimetismo, ma
è eccezionale la scoperta dell’assunzione di un carattere sessuale secondario
per effetto di selezione, in quanto gli elementi caratteristici di ciascun
sesso sono geneticamente legati in modo esclusivo all’identità sessuale, cioè
si tratta, come dice Jay Falk, di uno “stable
endgame”. [Cfr. Animal Behaviour – AOP doi:
10.1016/j.anbehav.2025.123104, 2025].
Il Ciclone Alfred ha scagliato uccelli
marini nell’entroterra dove non riescono a sopravvivere. Il
Ciclone Alfred, che ha colpito nei giorni scorsi le coste australiane del Qeensland, ha determinato la comparsa nei cieli di Brisbane
e di altre località dell’interno di specie aviarie mai viste in quei luoghi e
segnalate inizialmente con entusiasmo dai birdwatchers.
Ma presto si è notato che questi uccelli, pur sopravvissuti alla furia del
vento, morivano perché in città non sapevano come e dove trovare cibo, acqua e
riparo. Come in altri casi, è intervenuta l’organizzazione in difesa di questi
uccelli fondata da due celebri gemelle, Paula e Bridgette
Powers, ritratte fin da bambine con i pellicani: Twinnies
Pelican and Seabird Rescue. Hanno salvato, fra
gli altri uccelli trascinati dalla furia dei venti sulla terraferma dalle
isole, esemplari di black-winged petrel (Pterodroma nigripennis) una procellaria dal corpo bianco con
lunghe ali elegantemente striate di nero, che si accoppia sull’isola nota come
Lord Howe Island. [Fonte: The Guardian Science News, March 2025].
Il Saggio sulle malattie della mente
di Kant rivela una visione conosciuta solo da pochi. La
nostra società scientifica fin dalle sue prime pubblicazioni ha contribuito a
far conoscere il Saggio sulle malattie della mente di Immanuel Kant (v.
rubrica Drops), riscoperto da Luciano Dottarelli ma ignorato da quegli
psichiatri e psicologi che, per decenni, hanno citato Kant a sproposito
parlando di disturbi mentali. Nell’incontro di questa settimana di un gruppo di
studi di BM&L-Italia dedicato all’analisi dei rapporti delle idee di Kant
con la concezione della malattia mentale delle epoche precedenti e successive,
si è discusso dell’allucinazione delirante (da Kant definita
semplicemente “allucinazione”), ossia dello sviluppo di un delirio
interpretativo da parte dello psicotico in seguito all’esperienza di una
“percezione senza oggetto” (allucinazione).
Ecco le parole di Kant maggiormente
analizzate e discusse: “Per quanto riguarda il primo di questi mali, cioè
l’allucinazione [Verrükung], io spiego le sue
manifestazioni come segue. L’anima di ogni uomo, anche nella condizione più
sana, è sempre affaccendata a dipingere ogni sorta di immagini di cose che non
sono presenti o anche, nella rappresentazione di cose presenti, a completare una
qualche somiglianza imperfetta attraverso questo o quel tratto chimerico che la
capacità inventiva inserisce nella sensazione. Non vi sono ragioni di credere
che nello stato di veglia il nostro spirito segua a questo riguardo leggi
diverse da quelle nel sonno… Non c’è quindi da meravigliarsi che i sogni, per
tutta la loro durata, vengano presi per vere esperienze di cose reali”[1].
Dunque, Kant suppone nell’interpretazione delirante delle allucinazioni un
processo simile a quello che ha luogo nel sonno.
Interessante notare che, contrariamente
a quanto ritenuto da molti interpreti del pensiero kantiano sull’argomento
delle forme di insania psichica, il filosofo di Königsberg riconduce al
cervello, a una base cerebrale, l’alterazione all’origine del fenomeno: “Si
supponga ora che certe chimere, quale che ne sia la causa, abbiano per così
dire leso questo o quell’organo del cervello, in modo tale che l’impressione su
di esso sia stata tanto profonda e al tempo stesso precisa quanto quella che
solo una sensazione può dare; in tal caso questo fantasma dovrà essere
considerato come un’esperienza reale anche allo stato di veglia…”[2]. [BM&L-Italia, marzo 2025].
Rapporti tra linguaggio, filosofia e
neuroscienze: la necessità di tornare a Wittgenstein. In un incontro della nostra società scientifica che
si è tenuto in questa settimana, i soci del gruppo strutturale dedicato al
rapporto tra filosofia e neuroscienze hanno dimostrato la necessità di
riprendere, studiare e impiegare le tesi esposte da Ludwig Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus. Il Trattato, adottando i
principi del simbolismo e della relazione tra le parole e le cose in ogni
linguaggio, dimostra come la filosofia tradizionale e molte soluzioni
tradizionali nascano dall’ignoranza dei principi del simbolismo e dal cattivo
uso del linguaggio. I temi, come spiega nell’introduzione il celebre matematico
e amico dell’autore Bertrand Russell, sono nell’ordine: la struttura logica
delle proposizioni, la natura dell’inferenza logica, la gnoseologia[3], i principi della fisica, l’etica
e, infine, il Mistico (das Mystische). Ludwig Wittgenstein divide in tre ordini di
problemi il rapporto tra linguaggio e pensiero: 1. Cosa avviene nella mente:
campo della psicologia (e noi oggi aggiungiamo: delle neuroscienze); 2. Qual è
la relazione tra enunciati e significato: campo dell’epistemologia; 3. Come
usare gli enunciati affinché risultino veri: questo problema appartiene
ai singoli saperi e scienze che trattano dell’oggetto degli enunciati.
Un’idea
pratica su come l’impatto del Trattato sulle questioni discusse e
dibattute in filosofia, psicologia e neuroscienze porti chiarezza ed elimini
equivoci persistenti nell’uso pratico di concetti relativi alla nostra
esperienza quotidiana, la forniscono questi esempi di definizioni: Il mondo
è tutto ciò che accade. Il mondo è l’insieme dei fatti, non delle
cose. I fatti nello spazio logico sono il mondo. Lo stato di cose
è un nesso di oggetti (entità, cose). Gli oggetti contengono la
possibilità di tutte le situazioni. L’oggetto è semplice. Gli
oggetti formano la sostanza del mondo. Perciò non possono essere
composti.
Bastano
solo questi primi enunciati, per rendersi conto di quante ambiguità si possono
eliminare accettando di impiegare in questo modo rigoroso concetti basilari per
ogni riflessione sulla realtà. [BM&L-Italia,
marzo 2025].
Da cosa mangiava il Collegio dei Priori
nel 1344 al secondo libro di cucina del Trecento. Proseguiamo nei nostri appunti di
storia della cucina per sensibilizzare circa la necessità di ritornare alla
preparazione casalinga dei cibi, evitando i prodotti dell’industria alimentare (v.
in Note e Notizie 15-02-25 Notule: I nuovi studi su microbioma intestinale e
asse cervello-intestino evidenziano l’importanza dei costumi alimentari; Note
e Notizie 22-02-25 Notule: Appunti e curiosità su abitudini alimentari e
cucina presso i Romani antichi; Note e Notizie 01-03-25 Notule: Da Roma
a Firenze: appunti di cucina medievale italiana prima del primo libro di cucina;
Note e Notizie 08-03-25 Notule: Dai costumi alimentari medievali alla
nascita del lessico della cucina italiana; Note e Notizie 15-03-25 Le
straordinarie ricette del Modo di cucinare et fare buone vivande rivelano i
gusti dell’epoca; Note e Notizie 22-03-25 I destinatari dei ricettari
del Trecento e la breve storia di una brigata di giovani gaudenti).
Nel Trecento è attestato l’affermarsi di
una differenza radicale tra il regime alimentare dei poveri e quello dei
benestanti, dei ricchi e dei potenti, con alcune caratteristiche che rimarranno
per secoli e che, secondo alcuni autori, si affermarono anche a causa delle
numerose carestie che si ebbero in quel periodo.
Le carestie del XIV secolo, per
l’impatto che ebbero sui popoli della penisola italiana, sono state oggetto di numerosi
studi, prevalentemente condotti seguendo criteri e paradigmi economici e
politici al fine di spiegare il perché di una realtà mai documentata
storicamente come in quel periodo, ma oggi, alle pur rilevanti ragioni proposte
nei saggi classici, si aggiungono interessanti spunti emersi dall’impiego di
nuovi paradigmi, non ultimo quello della storia della meteorologia. È
documentato in tutta Europa un cambiamento climatico con un abbassamento
generale della temperatura e un aumento massiccio delle piogge con effetti
catastrofici sui raccolti, di cui si legge spesso che marcivano. Senza contare
che il freddo e le intemperie riducevano la resistenza umana nel lavoro dei
campi. Ma sicuramente ebbe un peso notevole il drastico cambiamento di
proporzione tra domanda e offerta: Dal 1100 al 1300 la popolazione europea era
quasi triplicata, senza alcun progresso nelle tecniche agricole e senza un
aumento proporzionale degli agricoltori. E il contributo di un altro fattore,
da sempre rilevato dagli storici ma considerato da molti paradossale, ha
trovato di recente una chiara spiegazione razionale: le guerre precedevano
sistematicamente le carestie. Era considerato paradossale in base a questo
ragionamento: i contadini non potevano essere arruolati negli eserciti, dunque
il lavoro agricolo era sempre assicurato e, considerati i caduti in guerra, si
aveva una riduzione della popolazione da sfamare. Ergo: offerta identica con
riduzione della domanda dovrebbe voler dire abbondanza.
Il ragionamento in termini economici non
faceva una piega, ma mancava una nozione importante relativa alla guerra; i
primi ad accorgersene furono gli studiosi delle strategie adottate nella Guerra
dei Cent’Anni: uno di quei modi, mutuato dai barbari, si affermò nel Trecento.
Gli eserciti occupavano i campi espropriando, cacciando e talvolta uccidendo i
contadini, vi costruivano grandi accampamenti e poi, quando muovevano da lì,
incendiavano e devastavano tutto con ogni mezzo, per sottrarre ai nemici mezzi
di sussistenza. Ecco come la guerra distruggeva l’agricoltura. Nel giro di
qualche decennio zone abitate con colture e allevamenti si trasformavano in
aree boschive o forestali. Questa ragione si affianca a quella classicamente
addotta per spiegare la “fuga dalle zone rurali” che colpì particolarmente
Italia e Spagna: quando un terreno diventava improduttivo i contadini dovevano
continuare a pagare un canone al proprietario senza poter coltivare la terra e
ottenere raccolto.
Un altro aspetto significativo è il
rapporto delle carestie con le epidemie – particolarmente quelle di peste –
frequenti e gravi in quegli anni. Non accadeva solo che l’infezione mortale
decimasse la manodopera dei campi, ma si stabiliva un vero e proprio circolo
vizioso: la carestia impoveriva l’alimentazione di apporto proteico, vitaminico
e di oligoelementi, riducendo negli organismi la biosintesi degli anticorpi e
di tutte le molecole implicate nei processi di difesa immunitaria, causando una
vulnerabilità massima alle infezioni, che si sviluppavano anche con bassa
carica batterica e risultavano più spesso, se non invariabilmente, mortali.
Dopo questa doverosa parentesi sulle
carestie trecentesche, ritorniamo alla differenza alimentare fra i ceti poco
abbienti e quelli benestanti. Era diverso tutto, a cominciare dal pane.
Il pane di mescolo, segno di
ristrettezza economica, è esistito per quasi due millenni, fino alla seconda
metà del Novecento. Esisteva già nel Medioevo, non si sa bene da quanto, ma
dopo lo sviluppo della grande ricchezza fiorentina rappresentata dal conio del
grosso fiorino d’oro, a lungo la moneta più forte d’Europa, fare in casa
propria o acquistare pane di mescolo voleva dire non poter comprare alcuna
delle numerose varietà di “pane bono”, dal pan bianco al pan nero, venduto dai
fornai toscani e in tutte le altre regioni italiane. Il pane di mescolo era
fatto con un misto di farine di vecce, segale, fave, miglio e, in piccola
parte, frumento.
Anche se queste “farine povere” erano
raccattate come scarti, avanzi, rimasugli di preparati adoperati per il
foraggio di animali d’allevamento, si vuole che fossero, sia pure a occhio,
bilanciate nel realizzare il pan di mescolo. Per cultura popolare si
sapeva del rischio di mali cui ci si esponeva nell’uso alimentare di ciascuna di
quelle farine surrogate, e allora si riteneva di poter evitare l’effetto nocivo
limitando la quantità relativa di ognuna nella mescolanza. In particolare, alla
segale si attribuivano gli effetti tossici della claviceps
purpurea (segale cornuta) e alla farina di veccia una diarrea irrefrenabile.
In proposito, si tenga conto che le
vecce erano molto comuni in Toscana e diedero luogo a una tradizione
quaresimale ancora viva in tutta Italia. La veccia è il seme di una pianta
erbacea leguminosa appartenente al genere Vicia
(Vicia sativa), comprendente molte
specie spontanee, che crescono in forma filamentosa: i semi si davano agli
animali da cortile, la farina si usava come foraggio per gli animali da stalla;
piantine di veccia si facevano crescere al buio durante la quaresima, in modo
che in assenza di fotosintesi venissero su come eleganti ciuffi di fili bianchi
cascanti dai vasi, da impiegare per adornare i sepolcri allestiti presso le
chiese durante la settimana santa. A quest’epoca e a quest’uso risale il detto
toscano rivolto a persone pallide, soprattutto se mancanti di abbronzatura in
estate: “Tu sei bianco come una veccia!”
Ritornando all’alimentazione delle
persone in ristrettezze economiche, la prima cosa da rilevare è l’assenza delle
carni, tanto che si diceva: “per i poveri è sempre venerdì”; ma non potevano certo
mangiar pesce o molluschi, tranne nel caso si trattasse di poveri pescatori.
Poi si deve notare che anche i formaggi e persino le uova erano rarissime per
costoro: molti andavano avanti per anni a zuppe di pan di mescolo e verdure di
piante selvatiche.
Uno straordinario documento che si può
consultare presso l’Archivio di Stato di Firenze, ci aiuta a comprendere
l’enorme differenza nell’alimentazione tra privilegiati e indigenti: Il
Registro delle Spese per la Mensa del Collegio dei Priori nel 1344. Il
Collegio dei Priori era la massima magistratura fiorentina il cui delicato
incarico istituzionale era riconosciuto e rispettato dal popolo. Si osserva,
per inciso, che tre anni dopo si ebbe in Firenze una grande carestia. Cercando
nel registro della mensa troviamo spese per questi primi piatti: ravioli, lasagne,
maccheroni, pappardelle e vermicelli; per queste pietanze: vitella, castrone,
maiale, capponi, polli, piccioni, anatre, fagiani e tordi; tra i pesci d’acqua
dolce vi sono tinche, lasche e lucci, tra quelli di mare, muggini, ossia
cefali, lamprede e poi crostacei, molluschi e granchi. Vi erano naturalmente
spese per le numerose spezie. Tra i prodotti dell’orto spiccano fave, piselli e
tanti legumi.
Non sorprendono le spese per arredi e
utensili da cucina e da tavola, fra cui piatti, bicchieri, posate, con una
varietà ancora sconosciuta altrove; in proposito, notiamo l’acquisto di
forchette, rimaste sconosciute fuori della Toscana fino al Settecento, come si
è già detto.
Uno dei motivi per cui i privilegi dei
Priori erano accettati è che la carica durava solo due mesi, e così ogni anno
cambiavano sei volte i membri del Collegio, e quindi quasi tutti gli iscritti a
ciascuna delle Arti potevano aspirare a diventare priori per due mesi.
Prima di passare a un altro
straordinario ricettario dopo quello del 1338, osserviamo alcune
caratteristiche dei gusti dell’epoca. Francesco Sacchetti nelle sue novelle ci
tramanda che i Fiorentini del Trecento andavano in estasi per “l’oca ripiena
d’agli”[4],
il che ci informa su un gusto tipico di quell’epoca: mangiavano e gustavano il
sapore dell’aglio cotto e degli effetti organolettici prodotti grazie ad
un’azione chimica di “riduzione” sugli acidi dei grassi delle carni[5].
L’uso dell’aglio non come semplice aroma, ma come parte essenziale della
pietanza, è stato conservato per centinaia d’anni in Spagna e si ritiene, anche
se non vi sono prove certe al riguardo, che l’origine sia nella gastronomia
italiana.
Francesco Sacchetti ci dice che
“andavano in estasi” anche per il “ventre di vitella”, per le starne lesse e le
sardelle in umido. Fra i dolci gradivano molto le pinocchiate, i morselletti, le zucche confettate, i berlingozzi, il pan
pepato, il savore, la sapa e le fanfalucche[6].
Il secondo libro di cucina toscana e
italiana fu scritto nella seconda metà del Trecento, è custodito col
contrassegno di Codice 158 nella Biblioteca Universitaria Bolognese e
convenzionalmente chiamato Anonimo toscano del XIV secolo per
cinquecento anni, fino a quando Francesco Zambrini, nel 1863, lo trascrisse e
gli diede nome Libro della Cucina del XIV secolo. L’autore si ritiene
fosse un cuoco toscano, in particolare fiorentino secondo Paolo Petroni,
rimasto anonimo con ogni probabilità perché gli autori dei primi ricettari si
ritiene fossero dei raccoglitori di ricette, tramandate prevalentemente per via
orale, e non gli ideatori dei piatti.
In questo periodo a Firenze si poteva
gustare la porchetta in deliziosi arrosti che sfruttavano lo sciogliersi del
grasso ad alta temperatura per il formarsi di quella crosta glicoproteica che,
ancora oggi, con le giuste spezie, conferisce quel sapore ritenuto
irrinunciabile da molti. Ma per altri due secoli la porchetta, che oggi è un
vanto laziale, rimane sconosciuta fuori dalla Toscana[7].
L’Anonimo toscano del XIV secolo
riporta ben 183 ricette, ciascuna delle quali è descritta in modo sommario, con
specifiche solo per gli elementi essenziali e caratterizzanti. Si sono
ritenute, queste esposizioni stringate, un segno del fatto che l’autore si
rivolgesse ad esperti di cucina, cui non bisogna dire come si prepara un brodo,
come si fa un impasto di farina o il procedimento di base per salse e zuppe, né
le quantità degli ingredienti. Fra i primi piatti vi sono ricette di ravioli,
tortelli, lasagne, pastelli, molti timballi diversi e pasticci in crosta, che
all’epoca si chiamavano “coppi”.
Fra i secondi di carne dominano gli
arrosti: di paperi, oche, piccioni, capponi, pavoni e gru. Poi dei piatti che
avranno grande successo e diventeranno dei classici, come la spalla di castrone
stufata, accanto alla testa di bue marinata e a varie ricette di trippa. Si
ritiene che questo ricettario abbia contribuito alla fortuna di un piatto
ricercatissimo in periodo invernale: il caldume
o gualdaffa, a base di brodo di trippa e di
budella bovine. Non pochi hanno visto nella gualdaffa
un antenato del lampredotto.
[continua]
Notule
BM&L-29 marzo 2025
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of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Immanuel Kant, Saggio sulle
malattie della mente, pp. 66-67, Massari Editore, Bolsena (VT) 2001.
[2] Immanuel Kant, Saggio sulle
malattie della mente, op. cit. p. 67.
[3] La gnoseologia è la teoria
della conoscenza, ossia è quella branca della filosofia che studia la natura
della conoscenza.
[4] Francesco Sacchetti, Novelle,
cit. in Paolo Petroni, La cucina del Trecento: nasce la vera cucina
fiorentina, in Il libro della vera cucina fiorentina, p. 18, Giunti,
Firenze 2009.
[5] Tra i tanti composti solforati
caratterizzanti l’aglio, il più interessante è l’aminoacido (non proteinogeno) alliina, che
abbonda nell’aglio fresco (insieme con ciclo-alliina,
iso-alliina e S-metilcisteina)
ed è un solfossido derivato della cisteina. L’alliina (alfa-aminoacido appartenente alla serie
stereochimica L) per azione enzimatica produce i solfonati: anche il semplice
schiacciamento causa la produzione dei solfonati, che danno l’odore dell’aglio
fresco.
[6] Cfr. Paolo Petroni, La cucina del
Trecento: nasce la vera cucina fiorentina, in Il libro della vera cucina
fiorentina, p. 18, Giunti, Firenze 2009.
[7] Cfr. Paolo Petroni, La cucina
del Trecento: nasce la vera cucina fiorentina, in Il libro della vera
cucina fiorentina, p. 17, Giunti, Firenze 2009.